Ferriera – ex Mulino Alviggi
L’evoluzione tecnologica medievale relativa all’uso dell’acqua per il funzionamento delle macchine condizionerà secoli più tardi quella settecentesca, soprattutto all’interno del Regno di Napoli, nella costruzione di mulini e ferriere, inclusa la Ferriera di Sant’Agata de Goti. La ferriera ad acqua più antica, databile 1278, era di proprietà dei Cistercensi toscani i quali adottarono una politica di espansionismo dell’Ordine spingendosi fino ad Amalfi il cui feudo comprendeva anche Sant’Agata de’Goti. Nel 1137 Amalfi fu assediata dai Pisani che distrussero e saccheggiarono la città, di conseguenza i profughi rimasti senza protezione fuggirono in altre città del regno normanno ritenute più sicure, tra cui la rocca di Sant’Agata. Verosimilmente alcuni di questi profughi sarebbero i realizzatori di una struttura siderurgica lungo il fiume Isclero sul modello di quella amalfitana localizzata nella cosiddetta “Valle delle Ferriere”. Dopo circa quattrocento anni, il re Carlo di Borbone scelse Sant’Agata e altre sei località del Regno di Napoli, nelle quali si attestava l’attività dei Cistercensi nel Medioevo, per avviare la costruzione e la gestione di ferriere statali. Nei registri degli Annali Parrocchiali di Sant’Agata del Trecento si fa esplicita menzione di un luogo chiamato A la Ferrera, toponimo collegato indubbiamente all’esistenza di una struttura in cui si praticava la siderurgia, nell’attuale località Reullo.
La struttura della ferriera di Sant’Agata era costituita dalla Fucina Grande e la Fucina del Maglietto, con i due corpi di fabbrica divisi da un terzo, riservato alle abitazioni degli amministratori. La costruzione, oggi in stato di rudere, è realizzata in conci di tufo squadrato a faccia a vista, ha una copertura a doppio spiovente in legno con semplici puntoni di grossa orditura e arcarecci coperti da uno strato di tegole in coppi. Le aperture di ingresso sono ad arco ribassato, mentre il piano interrato è dotato di prese a “bocca di lupo” protette da grate. All’ingresso del cancello est giunge il sentiero che passa da una quota di 85 metri presso il ponte Viggiano ad una di 75 metri in corrispondenza del fabbricato. Parallelamente al sentiero corre un canale, in parte scoperto e in parte sotterraneo, che rispetta le stesse quote. La pendenza delle condotte di carico dell’acqua ha influenzato l’impianto della fabbrica, dovendo ovviare, nei pressi dell’edificio della fucina, alla mancanza del salto d’acqua di 10 metri necessario per sfruttare l’energia idraulica nelle trombe a vento. Rispetto ai due corpi di fabbrica dell’edificio il primo a destra era probabilmente la fucina del maglietto, locale rettangolare contenente due piccoli corpi: il primo al piano terreno con canali di scolo, vasche di pietra e mensole di pietra lungo i muri; il secondo a due piani con scala esterna, per i magazzini e forse per gli uffici. In fondo a questo ambiente vi sono alcune vasche che attingono acqua dal soprastante canale ed un camino. L’ambiente attiguo ospitava le abitazioni dei dirigenti militari. La facciata di quest’ala ha al centro un portale con due finestre laterali e un basamento di pietra calcarea mentre il paramento di tufo reca tracce di intonaco. Probabilmente l’interno si componeva di una serie di ambienti al piano terra e al primo piano intorno ad una corte centrale con una scala di servizio, secondo un tipico schema sette – ottocentesco. Rispetto alla posizione della ferriera il canale recante l’acqua per il salto doveva trovarsi in corrispondenza di una vasca di raccolta chiamata Bottaccio, ma la quota altimetrica risultava troppo bassa; la necessità di riportare il flusso dell’acqua ad una quota maggiore costrinse il progettista a realizzare un ingegnoso sistema di canalizzazione aggiuntivo servito da una cisterna e a ricavare il Bottaccio di raccolta dell’acqua presso il tetto del terzo corpo di fabbrica, inglobandolo al suo interno, con gravi inconvenienti legati all’indebolimento dei muri. Nel terzo ed ultimo corpo di fabbrica detto Fucina Grande si concentravano gli ambienti più importanti per la produzione: la sala centrale con copertura a volta ospitava le trombe a vento poste al di sotto del Bottaccio. Al piano terra altri ambienti di servizio, laboratori e sale di fusione. Gli ambienti di deposito del combustibile erano ricavati in una vasta zona sotterranea che prendeva aria e luce dalle bocche di lupo. Il piano terraneo occupa l’intera superficie della struttura. A metà Ottocento, dopo il fallimento dell’attività siderurgica, il primo piano dell’ala principale fu ristrutturato e parzialmente modificato per essere trasformato in mulino: vi furono aggiunti una terrazza ed ambienti di abitazione. Il mulino fu installato nel 1854 a nome di Federico Alviggi. La famiglia di origine napoletana, riadattò parzialmente gli ambienti principali dell’antica ferriera alle nuove funzioni, ma lasciò in stato di abbandono l’ala delle abitazioni; il piano terra di questa parte ospitava le strutture molitorie laddove in tempi precedenti aveva ospitato le “trombe a vento” e le fucine. Al piano terra, varcato l’androne, si accedeva alla sala del mulino contenente le macine, collegata alla sala del pulitore. A sinistra dell’androne si entrava nella stanza del mugnaio, resa abitabile da un camino e con un’apertura nella parete esterna per raccogliere i pagamenti; il resto degli ambienti era adibito a depositi. Infine, sul fondo del fabbricato la camera di carico dei palmenti. Tutti gli ambienti conservano le originarie coperture con volte a botte o a crociera. Attraverso una scala in pietra al piano superiore si accede alla torretta che porta ai Bottacci collegati ai quali sono visibili gli ingranaggi dei meccanismi per la chiusa manuale delle acque. Oggi l’edificio è di proprietà della famiglia santagatese Campagnuolo.
Rosanna Biscardi, L’Arco in fondo alla valle: il mistero architettonico di Sant’Agata de’ Goti, Napoli, Cervino editore, 2015